Supplementazione di vitamina D, anche per dosi elevate il rischio di tossicità è molto raro

Supplementazione di vitamina D, anche per dosi elevate il rischio di tossicità è molto raro

Negli ultimi dieci anni, numerosi studi hanno evidenziato una diffusa carenza di vitamina D nella popolazione americana e il conseguente progressivo aumento dell’uso di supplementi di vitamina D per ristabilire i livelli ottimali.

La vitamina D è nota per i suoi effetti sulla salute dell’osso in quanto come noto la sua forma attiva (calcitriolo) regola l’assorbimento intestinale del calcio introdotto con gli alimenti.

Visto l’aumento dell’utilizzo di supplementi di vitamina D tra gli americani, i ricercatori della Mayo Clinica hanno deciso di analizzare la salute delle persone con livelli elevati di vitamina D a seguito di un uso non adeguato di supplementi. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Mayo Clinic Proceedings.

Come spiegano gli autori dello studio, livelli di vitamina D superiori a 50 nanogrammi per millilitro sono considerati elevati. Tali livelli sono misurati attraverso la misurazione nel sangue della 25 idrossivitamina D. Secondo l’Institute of Medicine (IOM), livelli normali di vitamina D sono superiori ai 20 ng/mL mentre la carenza di vitamina D è definita da valori inferiori a tale soglia.

I ricercatori hanno analizzato i dati dei pazienti arruolati nel Rochester Epidemiology Projec, un progetto del National Institutes of Health svoltosi dal 2002 al 2011. Delle 20.308 persone analizzate, l’8% presentava livelli di vitamina D superiori a 50 mg/mL e meno dell’1% aveva livelli superiori a 100 ng/mL.

“Nei soggetti con livelli di vitamina D superiori a 50 ng/mL non abbiamo osservato un aumento del rischio di ipercalcemia” spiegano gli autori.

“E’ stato dimostrato che la tossicità da somministrazione di eccessive quantità di Vitamina D, assunta  a dosi inappropriate, è molto rara e non pericolosa per la salute dei pazienti – dichiara il prof Giancarlo Isaia, Direttore di “Geriatria e Malattie Metaboliche dell’osso” dell’ospedale Molinette della Città della Salute e della Scienza di Torino e Presidente della Società Italiana dell’Osteoporosi del Metabolismo Minerale e delle Malattie dello scheletro. Questo dato scientificamente ineccepibile conferma pienamente la nostra esperienza clinica in pazienti che hanno commesso  errori nell’assunzione di preparati con Vitamina D senza peraltro che abbiano manifestato alcun successivo disturbo”.

Gli esperti hanno osservato, inoltre, che le donne di età superiore ai 65 anni presentavano un rischio superiore di avere livelli elevati di vitamina D. Questo dato non ha, però, sorpreso gli autori in quanto questi soggetti fanno uso frequente di supplementi di vitamina D.

Il numero di persone con livelli di vitamina D superiori a 50 ng/mL è aumentato progressivamente nel corso dei 10 anni di studio, passando da 9 persone su 100mila all’inizio dello studio a 233 persone su 100mila al termine dello studio. Questo è un dato interessante in quanto suggerisce che l’assunzione di vitamina D attraverso gli alimenti è in aumento.

Durante questo periodo è stato osservato un solo caso di tossicità acuta da vitamina D. La persona in questione presentava livelli ematici di vitamina D pari a 364 ng/mL. Questo soggetto aveva fatto uso di 50mila IU di vitamina D ogni giorno per un periodo superiore a tre mesi e in più aveva utilizzato anche supplementi di calcio. L’IOM raccomanda come limite massimo per la supplementazione della vitamina D nelle persone carenti 4000 IU al giorno.

“E’ importante che i medici spieghino ai pazienti quali sono le dosi ottimali di vitamina D da utilizzarsi per la supplementazione, anche perché in commercio sono disponibili compresse che contengono 50mila IU di vitamina D e che vengono distribuite senza obbligo di prescrizione. Se utilizzate tutti i giorni, queste dosi possono essere associate a episodi di tossicità”, spiegano gli esperti.

In un editoriale di accompagnamento allo studio, il Dr. Michael F. Hollick, uno dei maggiori esperti di vitamina D a livello mondiale, ha descritto la storia medica di questa vitamina, la necessità di dosi adeguate e giudiziose e l’importanza della supplementazione nelle persone carenti. “E’ chiaro che i casi di tossicità da vitamina D sono molto rari e sono dovuti all’assunzione di dosi molto elevate di supplementi”, spiega l’esperto americano.

Le conclusioni sono state che, nonostante dal 2002 al 2011 il numero di campioni con concentrazioni > 50 ng/mL sia enormemente cresciuto, non si è registrato alcun aumento in termini di tossicità acuta.

In un solo caso, con livelli > 350 ng/mL, è stato necessario un intervento mirato per evidenti segni tossici. In tutte le altre rilevazioni, invece, non è stato possibile tracciare alcuna connessione tra concentrazioni crescenti di 25-OH-D e segni di tossicità, in particolare ipercalcemia.

Le conclusioni sono importanti, perché smentiscono una delle convinzioni più radicate nel mondo medico, ovvero che la vitamina D sia una delle sostanze liposolubili più tossiche sia per i reni che per il cuore.

Nel suo editoriale Holick ricostruisce anche la storia di come si sia diffusa la percezione della vitamina D come sostanza potenzialmente tossica. Fin dagli anni ’40 si pensava che dosi elevate di vitamina D potessero essere di aiuto per la terapia dell’artrite reumatoide. I dosaggi utilizzati erano molto elevati, dell’ordine di 200-300mila/unità/die. Tali terapie portarono alla comparsa di ipercalcemia, iperfosfatemia, calcinosi renale e dei tessuti molli. La pratica fu quindi abbandonata anche se rimase la percezione della vitamina D come sostanza potenzialmente pericolosa perché si accumula nei grassi e può rimane a lungo nell’organismo.

L’aggiunta di vitamina D agli alimenti fu invece abbandonata nel corso degli anni 50 a seguito della rilevazione di casi di malformazioni facciali e di danni cardiaci attribuiti al sovradosaggio di vitamina D. Le autorità britanniche ordinarono una indagine che non portò a conclusioni certe ma nella quale si ipotizzò che la responsabilità potesse essere attribuibile a dosi cronicamente elevate di vitamina D dovute alla sua presenza nel latte e in altri alimenti.

Fu quindi deciso di proibire l’aggiunta della vitamina D agli alimenti e la pratica fu seguita un po’ da tutti i Paesi. L’aggiunta di vitamina D al latte rimane ancora oggi  utilizzata negli Stati Uniti, in Canada e in alcuni Paesi dell’Europa del Nord.

Holick  ritiene che quei pochi casi di tossicità attribuita alla vitamina D fossero invece da ricondursi a malattie rare concomitanti, come la sindrome di William o alla ipersensibilità alla vitamina D che si osserva in pazienti con sarcoidosi.

Per finire, l’esperto ricorda l’importanza dell’esposizione al sole per raggiungere livelli di vitamina D adeguati, ma raccomanda cautela nell’esporsi durante le ore più calde della giornata e per periodi prolungati per evitare lo sviluppo di tumori della pelle.  Inoltre, conclude l’esperto, la vitamina D può essere introdotta nel nostro organismo anche attraverso la dieta, in particolare attraverso l’olio di pesce, come salmone e sgombro, e attraverso il latte fortificato.

La tossicità acuta da sovradosaggio di vitamina D è una delle emergenze mediche più rare da riscontrare e di solito avviene soltanto per ingestione volontaria o accidentale di dosi estremamente alte, oltre 50mila UI/die per mesi o anni.

Questa evidenza dovrebbe aiutare a migliorare l’appropriatezza della gestione clinica di questa importante arma terapeutica e, auspicabilmente, a limitare il ricorso talvolta acritico all’esame di laboratorio.

Daniel V. Dudenkov, Barbara P. Yawn, Sara S. Oberhelman et al. Changing Incidence of Serum 25-Hydroxyvitamin D Values Above 50 ng/mL: A 10-Year Population-Based Study Mayo Clinic Proceedings, 2015; 90: 561-4 DOI: http://dx.doi.org/10.1016/j.mayocp.2015.02.012

Leggi




siommms.it